“La mia Voce”, ecco cos’era.
Divoravo le parole in preda ad
una crisi mistica e credevo realmente che le avesse scritte per me. Ero convinto
che l’aver ritrovato il quaderno in una sera così particolare, in un luogo
talmente importante per me, non potesse essere altro che un segno.
Perché io e non altri? L’unica
spiegazione plausibile era… il Destino.
Riposi il quaderno nel mio Cassetto delle cose segrete ma avrei
dovuto fare la stessa cosa con i miei pensieri. Per tutta la notte, invece, non
feci altro che rivolgerli a lei, alle carezze di sua madre e a Jessy.
Sarei andato avanti nel leggere
fino ad incontrare nuovi fogli immacolati ma non volevo divorarla. Il rischio
di perdermi anche solo una linea sottile della sua anima sarebbe stato
altissimo e non me lo sarei perdonato!
Una vita alternativa… Sapevo a
cosa si riferiva, l’avevo cercata anche io in passato, chiuso nella mia camera a
consumare la tastiera del pc.
Non c’erano bottiglie vuote o
piccoli rotoli di allucinazioni. C’era solo la mia mente che vagava in maniera
del tutto naturale. Finché ogni cosa svanì e mi ritrovai a boccheggiare in
questo oceano.
La differenza tra noi era solo
nel fatto che non avevo nessuno da incolpare, ad eccezione di me stesso. Tutti
i fallimenti che caratterizzavano la mia vita avevano un unico colpevole
protagonista: IO.
Ore 9.05 del mattino: l’arrivo di
un messaggio sul cellulare mi catapultò nel presente. Quando lo avevo acceso?
L’amabile società di telefonia
mobile, nella quale avevo così ingenuamente riposto le mie speranze
comunicative col mondo esterno – dovevo essere pazzo! – mi informava che il
credito era inferiore ai tre euro.
Che notizia terribile! Come avrei
potuto organizzare un mega-party nel mio mega-monolocale in quelle condizioni?
Un’angoscia che mi consumò le viscere per sette secondi netti.
Mi resi conto, grazie ai
brontolii del mio stomaco, che erano pressappoco dodici ore che non ingerivo
niente di solido. Era giunto il momento di rituffarmi nella gloriosa vita da
single.
Mi avvicinai al frigorifero,
convinto che la cosa non mi avrebbe impegnato per più di una decina di minuti. Quel
pensiero era incredibilmente lontano dalla realtà!
Ancora il maledetto deserto di
ghiaccio ad annientare la mia autostima e, questa volta, nemmeno i due
cassettoni delle sorprese potevano aiutarmi.
Tremai all’idea di dover… andare
al supermercato!
La mia idiosincrasia per quel
luogo era frutto di terribili ricordi infantili, nei quali mi vedevo trascinato
da uno scaffale all’altro, spingendo un carrello sempre più colmo e pesante,
dovendo compiere vere e proprie acrobazie per non mozzare centinaia di gambe
appartenute ad altrettanti clienti che, con molta furbizia, avevano scelto
proprio quel luogo e quell’ora per riempire le loro case di cianfrusaglie
inutili.
Il tutto si concludeva con
interminabili file alla cassa, dove mia madre amava soffermarsi a chiacchierare
con le sue amiche di argomenti frivoli, dai quali non potevo mai sottrarmi
dall’esserne l’oggetto.
Riflettei a fondo sulla
situazione, cercando vie alternative allo strazio che mi stava aspettando ma,
alla fine, dovetti desistere dall’idea che qualche giorno di dieta forzata non
avrebbe potuto che farmi bene.
Mi infilai la giacca di velluto
ed uscii di casa.
Un tiepido sole tentava di
asciugare le strade, ancora bagnate dalle piogge della notte appena terminata.
Quanti passi compirà un uomo
nell’arco della sua giornata? E nella sua vita? Sono cose che mi hanno sempre
incuriosito e per le quali, molto probabilmente, non avrò mai risposta. Sarebbe
come pretendere di sapere quante stelle ci sono nel cielo. Nessuno si metterà
mai a contarle…
Le porte automatiche del
supermercato non si aprirono immediatamente al mio arrivo; sembrarono
diffidenti nei miei confronti.
Una volta dentro fui inondato
dalla luce fredda dei neon e dalla musica gracchiante in filodiffusione.
A quell’ora del mattino, solo le
imperterrite vecchiette del quartiere popolavano gli scomparti e le celle
frigorifere tutt’intorno a me.
Mi sono sempre chiesto perché ci
sono persone che vengono al supermercato ogni dannatissimo giorno e comprano le
stesse dannatissime cose in quantità industriale. Dove cavolo le mettono?
Forse fingono di comprare tutta
quella roba. In realtà si presentano alla cassa con qualche fetta di prosciutto
ed un rotolo di carta igienica ed il loro intento - o, sarebbe meglio dire: “il
loro assoluto bisogno” - è svagarsi per
qualche mezz’ora giocando alle formiche
accumulatrici.
Cominciai a passeggiare tra gli
scaffali senza avere la minima idea di cosa comprare: non ho mai amato le liste
della spesa!
La mia attenzione fu attirata da un TrePerDue su bustine di risotto ai funghi pre-confezionato. Di
certo uno chef parigino sarebbe inorridito all’idea ma, mentalmente, non potevo
permettermi altro: l’arte del cucinare non era mai stata mia.
“Moglie in vacanza?”, intervenne una vecchietta, vestita a
lutto da chissà quanti decenni.
“Prego?”
Indicò le tre buste nelle mie mani con un sorriso che
lasciava trasparire un’odiosa pietà nei miei confronti.
“Ah sì, questi… Beh, non ho molto tempo per cucinare.”
“E dove è andata?”.
Il suo sguardo passò dall’essere impietosito all’essere
incuriosito.
“Chi?”
“Sua moglie.”
“Non sono sposato.”
“Come? Un bel giovanotto come lei non è sposato?”
“Lo ero ma ci siamo separati.”
“Oh, come mi dispiace!”
L’idea sembrava realmente
affliggerla.
“Quando ero giovane io, e si
parla di molti anni fa, ci si sposava presto e non ci si lasciava più. Al
giorno d’oggi, invece, fanno tutti le cose senza pensare e prendono tutto alla
leggera… Ai miei tempi non ci si separava mica, sa?”
“Signora mia, ai suoi tempi non
esisteva nemmeno la possibilità di farlo.”
“Io non l’avrei fatto comunque!”,
rispose un po’ seccata. “El me’ marì…”, disse segnandosi “…l’era inscì brav!
Lavorava tutto il santo giorno e quando veniva a casa mi portava sempre a
ballare. Lei sa ballare?”
“Direi di no…”
“Neanche un ballettino?”
“No, mi creda!”
“Che peccato! Una volta le
ragazze le si conquistava ballando, mica come fate adesso…”
“E come facciamo adesso?”
Ero davvero curioso di sapere
come le vecchie generazioni ci vedessero.
“Mah… con quel Internèt…Che, tra l’altro, non ho ancora
capito bene cos’è.”
In fondo la signora era piuttosto
dolce.
“Devo cominciare a fare un po’ di
volontariato nelle case di riposo.”, pensai.
“Ma lei è il figlio della Luisa?”,
chiese saltando di palo in frasca.
“No, signora. Mia madre si chiama
Amanda.”
“Ah, non è il figlio della Luisa…
Mi sembrava di conoscerla…”
Se ne andò senza aggiungere
altro, spingendo il suo carrello mezzo vuoto, per poi scomparire girando
l’angolo della corsia.
Sorrisi guardandola dileguarsi
tra farina ed olio d’oliva.
Dopo una ventina di minuti ed un
paio di chilometri percorsi avanti e indietro tra il reparto salumeria e i
banchi-frigo dei latticini, il mio carrello fu inaspettatamente pieno.
Alle casse, fortunatamente, la
fila non era molto lunga.
Tuttavia, un uomo di mezza età,
dall’aspetto decisamente notarile, aveva deciso che avrei dovuto passare
l’intera mattinata a sentirlo discorrere sul rapporto qualità-prezzo di una
nuova marca di detersivo per pavimenti, a suo dire esageratamente costoso in
proporzione alla misera quantità contenuta nel flacone.
Avrei voluto regalargli una di
quelle cassette di legno, solitamente utilizzate per contenere la frutta nei
mercatini settimanali, che sarebbe diventata il suo pulpito da predicatore.
La cassiera tentava di ribattere
garbatamente alle sue considerazioni di consumatore defraudato ma si capiva
lontano un miglio - e come darle torto - che della questione non le importava
un fico secco.
Me ne stavo lì, spalmato sulle
mie costolette di maiale ad assorbire tutta la noia e il malumore che volteggiavano
nell’aria, quando sentii una voce pronunciare il mio nome, perforandomi come
una coltellata all’addome.
Mi voltai lentamente, nella
speranza di aver avuto solo un'allucinazione uditiva ma, quando la voce assunse
forme umane, un brivido percorse la mia spina dorsale, dall’alto in basso.
“Sei proprio tu?”
Ero proprio io e lei era proprio la
donna che mi aveva privato di anni di sonno beato: Marisa, la mia ex-moglie.
“Ciao Marisa.”
Non sapevo se fosse più
conveniente nascondere l’imbarazzo o il disprezzo che quell’incontro mi
provocava, così decisi di manifestare entrambi.
“E’ passata una vita dall’ultima
volta che ci siamo visti!”, disse sorridente.
“Dici? A me sembra sia volato, il
tempo.”
Non era vero, furono i tre anni
più lunghi della mia vita, anche se non a causa della sua mancanza.
“Allora, come te la passi?”
“Beh, direi piuttosto bene!”
Anche questo non era vero ma non
volevo darle la soddisfazione di vedermi come un uomo allo sbando.
“Bene, sono contenta!”
Ci furono interminabili secondi
di silenzio tra noi, durante i quali progettai svariati modi carini per
andarmene e lasciarla al predicatore del consumismo.
“E, dimmi, stai con qualcuno
ora?”, chiese più per spezzare l’imbarazzo che per un reale interesse per la
mia vita sentimentale.
“Sono appena uscito da una storia.
Niente di importante, solo una semplice avventura.”
Non mi ricordavo capace di
inventare tante balle e così ben congeniate.
“Mi spiace!”
“No, non ti preoccupare. Mi ero
stancato e ho deciso di troncare. E tu? Stai con qualcuno?”
“No, direi di no…Siamo ancora due
single incalliti, dunque?!”, disse sottolineando le sue parole con la classica
risata stupida di una ragazzina imbarazzata.
“Così sembra… Come mai da queste
parti? Pensavo abitassi ancora a…”
“In verità passavo di qui per
caso e mi sono ricordata di non aver nulla da preparare per cena.”
“E te ne ricordi alle nove del
mattino?”, pensai. La cosa puzzava alquanto.
Il notaio-predicatore alzò
improvvisamente il tono della voce ed attirò la nostra attenzione.
“Ma non ha nient’altro da fare
quello?”, disse Marisa.
“Avrà voglia di parlare con
qualcuno.”
“Ok, ma non possiamo passare
tutta la mattina bloccati qui!”
“Hai qualche appuntamento?”
“No, ma non mi va lo stesso di
starmene qui ad ascoltarlo.”
Nel frattempo, una caritatevole
dipendente del supermercato aprì una nuova cassa e i tre quarti della gente
incolonnata nella nostra fila si trasferì da lei.
“Mi sposto anche io.”, disse
Marisa, probabilmente con la speranza che la seguissi.
“Io resto qui a sentire come
finisce la predica.”, risposi ironicamente.
Marisa sorrise ma sembrava che
per qualche ragione non volesse muovere il primo passo verso la fila più
veloce.
“Senti, so che probabilmente non
è una buona idea ma…”
“Ma?”
“Perché stasera non vieni a cena
da me?”, chiese visibilmente imbarazzata.
“Hai ragione: non è una buona
idea!”
“Dai Primo, non stare così sulla
difensiva. È solo per ricordare i bei vecchi tempi.”
“L’unico aggettivo che non posso
certamente associare ai vecchi tempi è bello!”
“Lo sai che non è così. Siamo
stati bene prima di…”, si interruppe.
Pensò di essersi fermata in tempo
dal ricordarmi la causa della nostra separazione ma non sapeva che, dal primo
istante in cui l’avevo rivista, il suo simpatico aneddoto extraconiugale era
l’unico pensiero che avevo in testa.
Tuttavia, dovetti riconoscere che,
in fondo, quello fu l’unico momento veramente tragico e deprimente del nostro
matrimonio. Tutto il resto, come ho già raccontato, era un quieto vivere.
“Ti prego!”, insistette
sfoggiando il suo proverbiale sguardo da cerbiatta ferita.
Finsi di riflettere per qualche
secondo ma ero conscio di aver già deciso nel momento stesso in cui me lo aveva
chiesto. Alla fine accettai.
“Allora ci vediamo stasera alle
otto!”, disse entusiasta. “Tanto dove abito lo sai, no?”
Se ne andò con un sorriso raggiante
e la sua indimenticabile andatura da infermiera stanca.
“Che cosa hai fatto? Hai
accettato di andare a cena con la tua ex-moglie? L’hai fatto davvero? Che
stupido che sei!
Come pensi che andrà la serata,
eh? Comincerete a ricordare i vecchi tempi, fino a farvi coinvolgere negli
aneddoti più divertenti; berrete qualche bicchiere in più e BOOM, finirete a
letto insieme in men che non si dica!
E poi? Ti fermerai a dormire da
lei per la notte, forse per due o addirittura per tre, fino a quando non lascerai
lì il tuo spazzolino da denti e ricomincerà tutta la solfa! E’ questo che vuoi,
Primo? Vuoi rovinarti la vita un’altra volta?”.
Come al solito il mio buonsenso
si era fatto vivo quando ormai tutto era compiuto e non servì ad altro che
aumentare i miei sensi di colpa.
Ma c’era qualcosa, dentro di me,
che combatteva e si dimenava per uscire allo scoperto. Quella stupida
sensazione si chiamava “Speranza”, speranza di trovarla cambiata, più
interessante, più attraente di come la ricordavo.
D’altronde, tutti cambiamo. Certo,
alcuni lo fanno in peggio ma pur sempre di cambiamento si tratta.
E poi chi mi dice che non si sia
resa conto fino in fondo di quello che mi ha fatto e non si sia flagellata per
tutto questo tempo, promettendosi che, se mai avesse avuto la possibilità di
incontrarmi nuovamente, avrebbe fatto di tutto per rendermi felice?
Volli darle una possibilità di
aggiustare parzialmente le cose. Non c’era niente che avrebbe potuto fare o
dire per farmi dimenticare quello che era successo ma, per Dio!, tutti possiamo
commettere degli errori e tutti dobbiamo avere la possibilità di porvi rimedio.
Oltretutto, non avevo nient’altro
da fare quella sera.
Alle otto e dieci minuti suonai il
campanello di casa sua, con una bottiglia di vino bianco a buon mercato nella
mano destra ed un vassoio di pasticcini nella sinistra.
Vidi che aveva ancora mantenuto
la targhetta col mio cognome sulla porta d’ingresso e questo fu un segno
inequivocabile delle sue intenzioni mai sopite.
Venne ad aprirmi immediatamente,
come se mi aspettasse da ore con l’occhio incollato allo spioncino.
Era incredibilmente elegante e
tirata a lucido come non l’avevo mai vista.
I capelli, portati sempre sciolti,
ora erano raccolti in una deliziosa cascata di riccioli biondi. Il trucco era leggero
ma ben curato ed un paio di orecchini luccicanti rendevano il suo viso assai
fresco e giovanile.
E quel vestito… Una leggera
camicetta bianca in trasparenza, abbinata ad una lunga gonna nera con spacco
laterale, lasciavano intravedere forme certamente segnate dal tempo ma ancora
piuttosto attraenti.
“Perché non ti sei mai vestita
così quando stavamo insieme?”, pensai.
Mi fece accomodare in salotto e,
non so per quale istinto masochista, mi sedetti nello stesso punto dal quale
avevo posto fine alla nostra storia.
“Sono contenta che sei venuto!
Avevo paura che, nonostante avessi accettato l’invito, avresti cambiato idea
all’ultimo minuto.”, disse.
“Perché avrei dovuto farlo?”
“Già, tu non cambi mai idea…”
Era questa la prima frecciatina
della serata?
Stappai la bottiglia che avevo
portato e brindammo al nostro incontro.
La tensione nell’aria si tagliava
a fette; mi sarei preoccupato se non fosse stato così.
Inizialmente i nostri discorsi
verterono su argomentazioni futili, frasi di convenienza e finti interessamenti
sulle nostre esperienze lavorative degli ultimi anni.
Con particolare disinteresse,
venni a sapere che aveva abbandonato il lavoro che faceva quando eravamo
sposati ed era stata assunta come parrucchiera in un piccolo negozio in città.
Era piuttosto contenta della sua nuova occupazione anche se, per raggiungere il
negozio, doveva sorbirsi ogni giorno quasi un’ora e mezza di autobus e
metropolitana.
Si rammaricò per il mio recente
licenziamento e si propose come valido aiuto per la ricerca di un nuovo lavoro.
La cosa non mi interessò
particolarmente; non tanto per la sua offerta ma per il fatto che per qualche
tempo desideravo staccare un po’ la spina dalla vita e riordinare le mie idee.
Quello che avevo guadagnato in passato mi avrebbe permesso di farlo e, così, mi
ero concesso il classico anno sabbatico.
Più passavano i minuti e meno mi
sorprendeva; mi resi ben presto conto che, in fondo, non era cambiata per
nulla. Il suo carattere era sempre dominato da quell’indole prevaricatrice, che
un tempo mi avrebbe fatto comodo ma che ora provocava in me solo disgusto.
I suoi malesseri, come le sue
gioie, erano veramente avvilenti, incentrate su una stupida smania di votare la
sua vita al materialismo più volgare.
Il suo unico scopo era rimasto
quello di sempre: mandare avanti la casa e risparmiare quanto più possibile, in
modo da poter affrontare una vecchiaia serena. Quello che ignorava, però, era
che fosse già irrimediabilmente vecchia, non nell’età o nel fisico ma nei
pensieri.
La cena si dimostrò un colossale
fallimento sotto ogni aspetto: dalla cucina scadente ai discorsi inutili, dall’avvilente
atmosfera di famiglia ritrovata che
si era creata all’insopportabile musica in sottofondo, che Marisa aveva
erroneamente eletto a collante della nostra ri-unione.
Il mio vinaccio era l’unico
motivo valido per rimanere in quella casa.
Non ci volle molto a far entrare
Shara nei miei pensieri.
Per tutto il resto della serata
mi sentii come attratto irresistibilmente dal suo ricordo, come se fossimo
legati da un filo invisibile che si ritraeva e mi trascinava con forza verso di
lei.
Mi chiesi più volte dove fosse e
cosa stesse facendo.
La immaginai distesa sul suo
letto ad osservare il soffitto, sorseggiando un bicchiere di buon vino rosso,
mentre una musica leggera accompagnava i suoi incubi e la trainava verso un
sonno che non sarebbe mai stato ristoratore.
Avrei voluto raggiungerla ed
abbracciarla, accarezzarle i capelli e condividere la sua agonia, cantarle
dolci melodie d’infanzia e restare ad ammirarla nel dormiveglia.
Per qualche strana ragione
l’associavo continuamente alla mia Voce, la Voce del quaderno. Le due
personalità, per quanto poco conoscessi di entrambe, combaciavano perfettamente
nei miei sogni.
Le parole appartenevano a quel corpo
angelico, il quaderno era la Voce della Dea.
“Voce della Dea”. Decisi che questo
sarebbe diventato il nome del quaderno.
Marisa sembrava non accorgersi
dei miei viaggi mentali e continuava imperterrita nello sproloquio in cui si
era addentrata senza pudore. Le sue parole non avevano più importanza della
musica che fuoriusciva dall’impianto stereo.
Di tanto in tanto mi riportava
bruscamente alla realtà con domande idiote, alle quali rispondevo
telegraficamente. Come poteva essere così stupida da non accorgersi della mia
profonda noia?
Dopo un’ora abbondante di
rigurgiti dell’anima, decisi che era giunto il momento di togliere il disturbo.
Non fece nulla per nascondere il
suo dispiacere; d’altronde la mezza bottiglia di vino che si era scolata non
gliel’avrebbe mai permesso.
Una volta raggiunta la porta
d’ingresso, si lanciò in un ultimo disperato assalto e mi abbracciò, con tale
forza ed intensità emotiva che mi spaventarono.
“Mi spiace per quello che è
successo!”, disse alla soglia di un pianto fragoroso.
“Se c’è anche solo un modo per
tornare indietro, ti prego, dimmelo e lo farò…”
“Ok, Primo. Questo è il momento giusto
per dimostrare al mondo, ma soprattutto a te stesso, che non sei un mostro
senza cuore. Questa donna sta realmente soffrendo e, per quanto poco possa
interessarti, ha il diritto di ritrovare un attimo di pace. Quindi, caro mio,
datti da fare e pensa a una parola consolatoria che la possa rendere felice.”
Maledetta coscienza!
“Vedi, Marisa, ormai il passato
non si può più cancellare. Ok, hai fatto un errore e, in un certo qual modo,
sono anche disposto a perdonarti. Ma, credimi, se il tuo desiderio è di
ricostruire qualcosa tra noi, ti prego, fermati! È passato troppo tempo per
pensare che le cose possano tornare come prima.
Siamo cambiati entrambi, non è
vero? Ce ne siamo accorti proprio stasera. E cambiando abbiamo preso due strade
molto, troppo diverse.”
“Ma io non posso…”
“Si che puoi!”, la interruppi.
“Anzi, devi! Sei una donna ancora
giovane e piuttosto attraente. Devi pensare a rifarti una vita senza di me. E
poi, vorresti davvero tornare con un tipo come me?
Guardami: ho quasi trent’anni,
sono disoccupato e senza troppe aspettative nel futuro. Tu sei una donna
dinamica, che sa quel che vuole. Io ti sarei solo d’intralcio.”
Stava per rispondere qualcosa ma,
probabilmente, il mio sermone le aveva aperto gli occhi e mostrato quello che
prima si sforzava di ignorare.
Ero riuscito con discreto
successo a sbatterle davanti agli occhi la mia immagine di fallito. Chi meglio
di me poteva sapere quanto non avesse mai potuto sopportare i falliti?
“Forse hai ragione…”, singhiozzò,
mentre un lieve sorriso affiorò sul suo volto.
“Forse siamo realmente troppo
diversi. Però nessuno ci impedisce di diventare buoni amici. Cosa ne pensi?”
Mi vennero i brividi.
“Potremmo vederci qualche sera
alla settimana, magari andando a farci una birra.”, aggiunse.
“Ci racconteremo i nostri dubbi e le nostre
paure e collaboreremo reciprocamente nel risolvere i nostri problemi. Non è
un’idea stupenda? È deciso: continueremo a vederci!”
Lo stava facendo nuovamente! Stava
tentando di programmare la mia vita e, questa volta, voleva imprigionarmi tra
mura di cemento armato.
“Allora, ti va di vederci Venerdì
sera?”, chiese con un sorriso smagliante.
Cominciai a sudare; il cervello
era ormai in panne e le mie mani presero a tremare vigorosamente. Dovevo
trovare alla svelta una scusa per rifiutare il suo invito, dovevo scappare da
li!
“Primo? Venerdì sera… ti va di
vederci?”, insistette.
“NO!” urlai.
Mi divincolai dalla sua morsa e
le chiusi letteralmente la porta in faccia.
Scesi le scale il più velocemente
possibile, tanto che rischiai più volte di ruzzolare fino al piano terra.
Quando fui in strada, riuscii a
prendere il primo autobus al volo, senza nemmeno sapere dove portasse. L’unico
obiettivo della mia vita, in quel momento, era di allontanarmi il più possibile
da quell’appartamento.
Una volta seduto, tremante dalla
fatica e visibilmente sudato, ripensai a tutta la scena: la immaginai
contorcersi sul pavimento per il terribile colpo subito in volto e piangere
disperata per le ferite che avevo aperto nella sua anima.
Quella porta simboleggiava lo
schiaffo che non ero mai stato in grado di darle.
Cominciai a ridere, a ridere di
gusto.
I pochi viaggiatori presenti mi
guardarono come si guarda un pazzo. Per loro non ero altro che uno dei tanti
malati mentali che popolano la città al calar del sole.
Quello che non potevano
minimamente sospettare era che, invece, io mi sentivo la persona più sana della
Terra.
tratto da Micromillesimi (2008)