mercoledì 16 luglio 2014





So che non posso in nessun modo convincerti che questo non è uno dei loro trucchi, ma non mi interessa. Io sono io.
Mi chiamo Valerie. Non credo che vivrò ancora a lungo e volevo raccontare a qualcuno la mia vita. Questa è l'unica autobiografia che scriverò e... Dio! Mi tocca scriverla sulla carta igienica.
Sono nata a Nottingham nel 1985. Non ricordo molto dei miei primi anni, ma ricordo la pioggia. Mia nonna aveva una fattoria a Tottlebrook e mi diceva sempre che "Dio è nella pioggia".
Superai l'esame di terza media ed entrai al liceo femminile. Fu a scuola che incontrai la mia prima ragazza: si chiamava Sara. Furono i suoi polsi... erano bellissimi. Pensavo che ci saremmo amate per sempre. Ricordo che il nostro insegnante ci disse che era una fase adolescenziale, che sarebbe passata crescendo. Per Sara fu così, per me no.
Nel 2002 mi innamorai di Christina. Quell'anno confessai la verità ai miei genitori. Non avrei potuto farlo senza Chris che mi teneva la mano. Mio padre ascoltava ma non mi guardava. Mi disse di andarmene e di non tornare mai più. Mia madre non disse niente, ma io avevo detto solo la verità, ero stata così egoista? Noi svendiamo la nostra onestà molto facilmente, ma in realtà è l'unica cosa che abbiamo, è il nostro ultimo piccolo spazio. All'interno di quel centimetro siamo liberi.
Avevo sempre saputo cosa fare nella vita, e nel 2015 recitai nel mio primo film: Le pianure di sale. Fu il ruolo più importante della mia vita, non per la mia carriera ma perché fu lì che incontrai Ruth. La prima volta che ci baciammo, capii che non avrei mai più voluto baciare altre labbra al di fuori delle sue.
Andammo a vivere insieme in un appartamentino a Londra. Lei coltivava le Scarlett Carson per me nel vaso sulla finestra e la nostra casa profumava sempre di rose. Furono gli anni più belli della mia vita.
Ma la guerra in America divorò quasi tutto e alla fine arrivò a Londra.
A quel punto non ci furono più rose... per nessuno. 
Ricordo come cominciò a cambiare il significato delle parole. Parole poco comuni come "fiancheggiatore" e "risanamento" divennero spaventose, mentre cose come "Fuoco Norreno" e "Gli articoli della fedeltà" divennero potenti. Ricordo come "diverso" diventò "pericoloso". Ancora non capisco perché ci odiano così tanto.
Presero Ruth mentre faceva la spesa. Non ho mai pianto tanto in vita mia. Non passò molto tempo prima che venissero a prendere anche me.
Sembra strano che la mia vita debba finire in un posto così orribile, ma per tre anni ho avuto le rose e non ho chiesto scusa a nessuno.
Morirò qui... tutto di me finirà... tutto... tranne quell'ultimo centimetro... un centimetro... è piccolo, ed è fragile, ma è l'unica cosa al mondo che valga la pena di avere.
Non dobbiamo mai perderlo, o svenderlo, non dobbiamo permettere che ce lo rubino... 
Spero che chiunque tu sia, almeno tu, possa fuggire da questo posto; spero che il mondo cambi e le cose vadano meglio ma quello che spero più di ogni altra cosa è che tu capisca cosa intendo quando dico che anche se non ti conosco, anche se non ti conoscerò mai, anche se non riderò e non piangerò con te, e non ti bacerò, mai... io ti amo. 
Dal più profondo del cuore... Io ti amo.


Lettera di Valerie.
da "V for Vendetta" di James McTeigue (2005)

giovedì 29 maggio 2014

Domani è un'altra notte

Non smette di piovere e questo mi tranquillizza.
Il panorama che si presenta, oltre i vetri puntellati di gocce sporche, è quello che desideravo per oggi. Non avrei mai potuto sopportare un’altra giornata di sole, colori e profumi straripanti allegria.
Oggi, come ieri e come i giorni precedenti, sono grigio e grigio deve essere il mondo.

Mentre escogito un finale repentino e indolore alla mia storia, l’ennesimo mozzicone si infilza nel cumulo di cenere che si erge dal mio vecchio e caro bicchiere di cristallo, costellato di decine di incrinature, simbolismo perfetto di milioni di secondi consumati e consunti nell’arco della mia esistenza.

Indolore. È questa la parola che ricorre e si rincorre tra i miei pensieri.
Lasciare il segno non è mai stata una mia prerogativa, in particolar modo se il farlo comporti un incontro ravvicinato con la sofferenza.
Se fossimo in un paese realmente libero le alternative abbonderebbero, tuttavia sono costretto a scervellarmi nel richiamare l’intuizione della vita - ecco l’ennesimo paradosso - proprio nel momento in cui devo… voglio porre fine ad essa.

“La nebbia si sta dileguando.” penso, e ho il timore che tutto ciò abbia un significato preciso: un conto alla rovescia verso il termine del tempo utile.
Come potrebbe mai, un uomo, ammazzarsi sotto un sole splendente?!

Sbatto un cd nel lettore e chiedo aiuto a Ian; chi meglio di lui saprebbe consigliarmi in una scelta così ardua?
La selezione 'random' mi sembra la più appropriata e decido di attendere gli eventi che, in questo caso, si identificheranno con una parola, netta, greve ed indelebile, ineluttabile.

Di nuovo quel dolore all’addome; porto le mani a proteggere il lembo di pelle lancinante in un curioso e quanto mai inappropriato istinto di sopravvivenza.
I timpani vibrano dall’interno e la voce di mia madre torna ad empire la mia cassa cranica.
Se fosse qui, davanti a me, ben ritta e sostenuta dal suo orgoglio d’altri tempi, mi prenderebbe a ceffoni nel leggere l’orda di malsani pensieri che si propagano per la stanza.
Quello che però non potrebbe sapere, è che ho già desistito da tempo, rinunciando alla felicità in nome di un ben più rilassante nulla.

Ieri, poco dopo aver preso la decisione forse più importante della mia vita, ho cominciato a pensare al passato e ai volti che si sono alternati frenetici davanti ai miei occhi.
Ho pensato alle voci, agli odori, alle mani.
Ho rivisto ed assaporato la pellicola sgranata che a fatica si srotolava dalla bobina e ho scoperto che, in fin dei conti, il mio è un gesto di assoluta follia; uno di quei raptus che un plotone di psichiatri pluridecorati oserebbe associare, senza alcuna difficoltà, ad una lapalissiana psiconevrosi ossessiva, nella quale il mio io distruttivo prende il sopravvento in via definitiva.
Ho dovuto sorbirmi queste stronzate per anni ed io, in questo preciso momento, sono la dimostrazione pratica che i dottori veri sono di gran lunga più affidabili di quei cantastorie ebbri di paroloni senza significato.

Stavo pensando di fotografarmi durante l’atto, in modo da lasciare ai posteri un’immagine inequivocabile, che possa essere pubblicata a pagina 5712 di un qualsiasi libro di psichiatria. Ovviamente la didascalia dovrebbe recitare: ESPERIMENTO FALLITO.
Per fare questo, però, devo trovare un metodo consono e, a questo punto, spettacolare; chi sarebbe interessato all’immagine di un uomo a testa china sul tavolo, senza il minimo accenno di globuli rossi a profusione?
Mi connetto nuovamente alla rete in cerca di alternative autolesioniste e mi imbatto in un sito singolare, dove qualche pazzo - ma infinitamente meno pazzo del sottoscritto - illustra le varie opzioni di scelta, a mo’ di catalogo:

SUICIDIO CON UN VELENO FATTO IN CASA
Per prima cosa dovete farvi il veleno, è molto semplice: prendete un contenitore di rame, lo riempite di piombini che ricoprirete con dell'aceto, chiudete bene il contenitore di rame e lasciatelo riposare per almeno due settimane, poi vi preparerete un'insalata che condirete con l'aceto avvelenato e dopo un po' morirete.

Le due settimane e il “dopo un po’” mi spronano a passare oltre.


Se lavorate in un ospedale potete rubare dei barbiturici o del veleno come cianuro, arsenico, stricnina ecc. e mangiarlo. Se usate i barbiturici, per piacere non avvertite qualcuno quando li prendete, questo perché se lo sa qualcuno avverte il 118 o enti analoghi i quali vi vengono a prendere dove vi trovate, vi fanno una lavanda gastrica, vi salvano e voi oltre a non essere morti vi fate pure la figura di merda del pazzo che si vuole suicidare!!!

Se penso a tutti i pomeriggi sprecati a contare le mattonelle del policlinico mi assale una rabbia incontrollabile.


Se volete soffrire un po' è meglio la corrente elettrica, è molto semplice: dovete prima disattivare il salvavita poi o vi leccate le dita e le mettete nella presa, starete lì fino a quando sarete totalmente carbonizzati. Oppure riempite la vasca da bagno di acqua, vi mettete dentro e buttate nella vasca un phon acceso. Dovreste morire in pochi secondi.

Certo, il pensiero di non possedere un salvavita rende tutto ciò alquanto stimolante; tuttavia l’odore di bruciato mi provoca nausea e, grazie alla mia sfortuna congenita, sfilerei le dita dalla presa prima di raggiungere il traguardo. Non solo sarei ancora di qua ma mi ritroverei ad imprecare dal dolore provocato da due dita arrostite.


SUICIDIO PER ASFISSIA (ANNEGAMENTO)
Potete anche imitare i pesci: vi fate legare mani e piedi, vi legate dei pesi sul corpo (l'ideale sono grosse pietre o piombi) e vi buttate in un lago, in un fiume, in mare eccetera.

Abitando in periferia mi vedo costretto a declinare verso altre possibilità.


Una tecnica "angelica" è quella di imitare gli uccelli. Vi potete buttare da qualsiasi cosa alta, come ponti, viadotti, grattacieli, palazzi, burroni, vette eccetera

Indubbiamente il metodo più affascinante ma dovrei trovare qualcuno disposto ad armeggiare con la mia macchina fotografica e dovrebbe essere uno bravo. Non mi accontenterei affatto di uno scatto a mezz’aria, senza arte né parte; pretenderei una sequenza di momenti più significativi del volo, fino al culmine dello schianto fragoroso e dell’effluvio ematico.
Spengo il pc sconsolato, nemmeno la tecnologia mi è venuta in soccorso.
Mi sdraio sul letto ad osservare il soffitto, nella speranza che scenda Dio dal cielo a darmi l’ispirazione.

Lo stereo passa in rassegna tutte le tracce del cd che, con infinito amore, avevo composto e dedicato a Lei, unico grande amore della mia vita. Lo stesso cd che mi aveva scagliato addosso al termine della nostra storia, ponendomi in elevato rischio di semi-cecità.

L’ultima nota riecheggia e rimbalza tra i muri bianco-smunto della stanza, fino a ricadere sulle mie palpebre che, un secondo dopo, si serrano e sigillano pesantissime.
Mentre la mente sta per oscurarsi ed il sonno prendere il sopravvento, un ultimo pensiero si anima e mi distrae dal dormiveglia:

“Giuro sulla mia vita che domani ci riprovo!”


(2008)

sabato 24 maggio 2014

I limiti della logica





Vorrei essere pazzo.
Lontano dalle catene del buongusto e del buonsenso.
Distante dai silenzi e dalle imposizioni culturali, disertore dagli eserciti del senso del pudore.
Vorrei passeggiare in equilibrio sulla linea di confine che delimita 'ciò che è' da ciò che 'deve essere', a elaborare piani di fuga dalle nostre prigioni impalpabili.

All'esterno del mondo e della vita, tendendo una mano verso di voi e, con l'altra, aggrapparmi alla rupe della salvezza.
In un vortice di puro istinto, in una sterminata distesa di pensiero e azione, dove la logica non serve ad altro che fare ombra.

Che siamo prigionieri, ce ne rendiamo conto? Che siamo i nostri carcerieri? Che solo noi abbiamo le chiavi delle nostre celle, dietro le sbarre della civiltà?

Perché la logica ha dei limiti e ci impedisce di prorompere nello spazio e nel tempo, ci rende pesci rossi in un oceano.
Ci domandiamo 'perché?' invece di chiederci 'quando?'.
Ci concentriamo sul 'come' e non diamo la giusta importanza al 'chi'.

Siamo delle domande sbagliate che cercano risposte inesistenti.
Siamo l'erba asciutta nel mezzo di una pozzanghera, dopo un acquazzone estivo.
Siamo i calcinacci dell'imponente costruzione che è tutto il resto.
E sprechiamo i nostri pensieri pregando e volgendo lo sguardo verso un muro bianco.
Fiumi di parole, ogni giorno... e non diciamo nulla di più di quanto già sappiamo.


Saltiamo e non cadremo mai!

venerdì 23 maggio 2014

Ti ricordo




Di te ho un ricordo molto nitido in una notte afosa, cominciata come tante altre e terminata come nessuna.
Mi ricordo il tuo sguardo vuoto e, al tempo stesso, ricolmo di emozioni da dimenticare.
Mi ricordo le tue mani e le tue visioni fittizie; e la tua vita, appena cominciata e già troppo profondamente consumata.
Mi ricordo cascate oniriche di petali di rosa.
Mi ricordo la luna e la sua luce strana che ti illuminava e nascondeva.
Mi ricordo dei tuoi singhiozzi, della tua voce spaccata da un incubo ricorrente e da un sogno che tardava ad arrivare.

Ricordo le tue parole trafiggermi e frantumarmi, mentre cercavo di raccogliere pezzi di te e ricomporli con cura.
Lì, davanti a me, così lontana e vicina, come quando giocavi con i tuoi sogni su quell'altalena arrugginita.

E io tentavo di esserci ma ero troppo distante, perché in quel momento eri un'unica entità che si trascinava sola.
E ricordo di essermi dimenticato di me.

Mi ricordo la quiete, quando ti sei risvegliata in un sole banale e mi hai guardato come se stessi guardando un altro.
Prima che ce ne rendessimo conto, tutto era già diventato un secondo scivolato via dalle nostre mani.
E abbiamo ripreso a respirare.

Dopo quella volta, ho capito che vivere la sofferenza di un altro è la condanna più terribile e che nemmeno la morte potrà essere più lacerante.

lunedì 12 maggio 2014

Io non sono qui




Ogni volta che il sole ride, io non sono qui. Non sono qui e non sono ora.
E vivo istanti in attesa di istanti futuri, di traguardi lontani che nemmeno riesco a scorgere.

Perché è una recita, un inganno che imponiamo a noi stessi, spaventati dalla verità: agiamo ma non siamo.
Arranchiamo, boccheggiamo, trasudiamo passi incerti e inciampiamo di continuo; allunghiamo braccia e mani a protezione di quel che non abbiamo.

E, allora, spreco il mio tempo per avere tempo da dedicare allo sprecare tempo. È folle!
É l'unica cosa che sono in grado di fare, al momento.
Compro inutilità da donare ai ricchi per averne una briciola di ritorno finché mi rendo conto di non avere più niente. E tutto ricomincia daccapo.

Sopravvivere nell'illusione di riuscire a vivere: si può essere più stupidi? Più masochisti? Più edonisti?
È come ballare un tango senza musica o tentare di urlare in assenza di ossigeno.

Spesso penso che si viva in funzione di quell'attimo di lucidità tra due pause di follia, per quel millesimo di secondo di aria pulita, uscendo dalla grotta. Per quel raggio di luce che s'insinua tra le persiane all'alba. In fondo, non si vive la notte per arrivare al mattino?
Perché l'obiettivo è il futuro; il presente è un'illusione e il passato non esiste più, proprio adesso.
E adesso.
E adesso.

E adesso.

lunedì 23 settembre 2013




Scalerò le montagne 
per ritrovarmi ogni volta che 
mi sentirò trascurato
dal me stesso che piace a me.

Sarò la mia idonea compagnia
fino a che la mia vista capirà
quale direzione prendere
nel lungo-breve viaggio della vita.

Io e me siamo il meglio che c'è: siamo fertili. 

Scenderò dai dirupi 
aggrappato all'altro me, 
per tornare fra i lupi 
delle selve delle città. 
Sarà la migliore garanzia 
di acquisire l'immunità 
da tossine e patogenesi 
per abuso di contiguità. 

Io e me siamo il meglio che c'è: siamo duttili. 

E quando sei convinto che sia meglio così... 
E sembra che la tua furbizia trionferà... 
E quando sei... e quando sei sicuro di te 
e senti che non stai sbagliando, proprio no!... 

Beh... fanne tesoro, perché verrà... 
cenciosa e rapace verrà 
la solitudine su di te. 

Fanne tesoro, perché verrà... 
lagnosa e tenace verrà 
la solitudine su di te. 

Fanne tesoro, perché verrà... 
astiosa e vorace verrà 
la solitudine su di te. 

Fanne tesoro, perché verrà... 
Fanne tesoro, perché verrà... 
la solitudine su di te.

mercoledì 5 giugno 2013

Estratto #4

Lo squillo del telefono avvisò Mario che Carlos stava arrivando. Si aggiustò i capelli un’ultima volta, infilò la giacca di pelle e corse giù per le scale, rischiando di cadere dalla foga.
Non appena uscì dal portone del palazzo, Carlos svoltò l’angolo e si presentò a lui con due colpi di clacson.
Non fece in tempo a chiudere la portiera dietro di se che già l’auto sfrecciava per le vie stranamente semideserte della città. La radio trasmetteva una canzone rock dalle chitarre laceranti e atmosfere paranoiche che rendeva il paesaggio circostante diverso da come lo aveva sempre visto.
“Questo e lui.” disse Carlos.
“Lui chi?”
“Mr. D.” rispose.
Mario lo guardò stranito, cercando di capire il motivo per il quale Carlos fosse così interessato a renderlo partecipe della sua scoperta.
“Mr. D.” ripeté.  “Quello della festa. È lui che la organizza.”
“Quindi è un cantante rock?”
“Un cantante rock? Amico mio, lui è il rock!” gridò. “Non dirmi che non lo conosci?!”
“Mai avuta la fortuna…”
Carlos lo guardò con aria severa prima di alzare il volume quasi al massimo. La melodia coprì completamente il rumore del motore e i vetri dell’auto cominciarono a tremare ad ogni colpo di basso.
Accelerava seguendo il ritmo della canzone, a tratti inarrestabile, a tratti lenta ed angosciosa. Conosceva a memoria tutto il testo e lo cantava a squarciagola, interrompendosi ogni due o tre frasi per raccontare all’amico episodi di vita dannata del nuovo profeta del rock.
Negli occhi aveva una strana rabbia, mai così evidente fino a quel momento. Urlava parole non sue contro l’asfalto sotto le ruote, come se stessero raccontando la sua vita tra un “vaffanculo” e un “addio gente senza nome”.
Ad un tratto, l’uomo affascinante e maledettamente sicuro di sé divenne un ragazzino furioso con il mondo che lo circondava; era come se l’adolescenza sopita si fosse risvegliata improvvisamente in un corpo adulto e alla guida di un’arma convenzionale, fatta di cavalli rombanti e pistoni scatenati.
Arrivarono alla festa in dieci minuti, molto di meno di quanto avrebbero dovuto impiegarci ad una velocità ragionevole.
Carlos affrontava le piccole stradine sterrate immerse nel buio con la disinvoltura di chi doveva averle percorse centinaia di volte mentre Mario non aveva la minima idea di dove si trovasse.
Dopo alcuni minuti di sballottamenti, causati dalle innumerevoli buche, svoltarono per un vialetto cementato, sbucato dal nulla, e si fermarono davanti ad un grosso cancello scuro che, dopo alcuni secondi di attesa, si aprì automaticamente e li lasciò passare.
Percorsero una stradina che si inoltrava in un fitto bosco di pini che rendevano l’atmosfera ancora più tetra di quanto già fosse. Improvvisamente, i rami si aprirono davanti a loro, lasciando la scena ad una grande casa, completamente bianca e sorretta da pilastri imponenti. Una sontuosa fontana di marmo bianco era incastonata nella piazzola antistante l’edifico, dove decine di auto eleganti erano parcheggiate ordinatamente.
Carlos si fermò davanti alla scalinata che conduceva all’ingresso della villa e scese dall’auto lasciando il motore acceso; Mario lo seguì di istinto.
Un ragazzo con giacca rossa e pantaloni scuri venne loro incontro a passo spedito, sfoderando un sorriso smagliante brevettato per l’occasione. Carlos lo salutò con un cenno distratto della mano ed egli rispose con un “Benvenuto signore”, si infilò agilmente in macchina e sfrecciò via, alla ricerca di un posto auto libero.
Arrivati in cima alla scalinata, la porta si aprì ed un uomo sulla cinquantina fece loro cenno di entrare, accompagnando il tutto con un inchino servile. Stette in quella posizione fino a quando Mario entrò per ultimo, chiudendo successivamente la porta dietro di loro.
Si ritrovarono in un grande atrio dove una lunga scala in legno finemente lavorato dominava l’arredamento. Ai lati di essa c’erano due archi che fungevano da ingresso ad altre sale. Dall’ala destra della villa provenivano urla e schiamazzi di gente al culmine del divertimento, accompagnati da una musica assordante.
Carlos si diresse sicuro verso quella direzione e Mario lo seguì a ruota per non rimanere solo.
Una volta dentro, li accolse un delirio di corpi che si fondevano nella semioscurità; figure indefinite si sfioravano e si abbandonavano freneticamente, milioni di parole si mischiavano, sciogliendosi in un’unica enorme espressione confusa.
Carlos cominciò il giro di saluti mentre Mario decise di rifugiarsi nell’angolo apparentemente più tranquillo della sala, seminascosto dietro una grossa pianta. In pochi secondi si persero di vista.
Per circa mezz’ora Mario si atteggiò ad ospite indesiderato, rimanendo al di fuori della confusione che regnava a pochi metri da lui. Di tanto in tanto, qualche figura umana gli passava davanti e lo osservava, cercando di intravedere in lui un volto conosciuto, per poi sparire nella direzione opposta rispetto a dove era arrivata.
La noia cominciò ad impadronirsi di lui quando Carlos sbucò dal buio e gli venne incontro.
“Ma dove eri finito?” gli chiese urlando per via del frastuono.
“Sono sempre rimasto qui.”
“Vieni che ti presento qualcuno.”
Carlos si gettò nuovamente tra la folla e Mario dovette faticare per stargli dietro, evitando uomini e donne che ballavano freneticamente e urlavano parole biascicate a causa dell’alcol e chissà quali droghe.
Finalmente Carlos si fermò davanti ad un gruppo di tre persone, appoggiate ad un grosso tavolo contro la parete, dove erano sistemate bottiglie di liquori di ogni genere e bicchieri di cristallo semivuoti.
“Ehi D. , ti presento un mio amico. Si chiama Mario.” Disse Carlos rivolgendosi ad uno di loro.
L’uomo dal look eccentrico gli porse la mano, con il dorso rivolto verso l’alto ed il polso leggermente inarcato. Su ogni dito troneggiavano anelli dorati dello spessore di un centimetro, ogni unghia era colorata diversamente dalle altre.
Mario gli strinse la mano timorosamente, rifiutando il baciamano a cui l’uomo lo aveva invitato.
“Questo è Mr. D. , quello della canzone.” Intervenne Carlos.
“Piacere.” disse Mario.
“Incantato!” esclamò D.
“Bella casa.” Disse Mario per rompere il ghiaccio.
“Sì, non c’è male. Sto pensando di venderla. Sai, non mi piace mettere radici in un posto fisso. Tango, la vuoi comprare tu?” disse rivolgendosi al ragazzo alla sua destra.
Tango sorrise, passandosi una mano tra i capelli biondi e perfettamente acconciati.
“No, Tango non se la può permettere.” Aggiunse. Tango sorrise nuovamente. “Vuoi forse comprarla tu, amico di Carlos?”
“Nemmeno io potrei permettermela, suppongo.”
“Beh, in questo caso dovrò tenermela tutta per me.”
Mr. D. cominciò a ridere inarcando il busto all’indietro e lasciando cadere i lunghi capelli scuri dietro di se. Era una risata appena accennata, in simmetrico contrasto con la sua espressione facciale notevolmente marcata; pareva un attore doppiato male in un film girato ancora peggio.
Mario dovette faticare per non ridere a squarciagola per la comicità della situazione e si limitò ad un sorriso trattenuto.
Mr. D. si ricompose, sventolandosi con un tovagliolo per combattere le vampate di caldo provocate dalla risata scoordinata.
“Mi è venuto una gran sete. Tango, perché non vai a prendermi qualcosa da bere.” Disse.
Tango si allontanò senza protestare e Mr. D. si rivolse a Carlos con una mezza risatina. Presero a parlarsi nelle orecchie, escludendo lo sconosciuto al loro fianco da ogni tipo di discorso.
Mario si guardò attorno per ingannare il tempo più che per reale curiosità. Lo colpirono le enormi tende rosse alle finestre, in netto contrasto con il resto dell’arredamento futurista.
La sala era piuttosto grande, condizione notevolmente amplificata grazie alla totale assenza di mobili. Qua e la erano sparse sedie di plastica azzurrina dallo stile bizzarro, progettate probabilmente da un architetto tanto famoso nell’ambiente dello spettacolo quanto sconosciuto per Mario.
I tavoli contro tre delle quattro pareti seguivano lo stesso stile indefinito delle sedie, solo più robusti e corposi. Alle pareti erano appesi quadri astratti di varie misure, che occupavano angoli meno in luce, lasciando libere le porzioni di pareti più in vista. Sembrava che chi avesse arredato la casa avesse volutamente ignorato le nozioni fondamentali di simmetria, creando nel luogo una confusione studiata per essere osservata. Persino la disposizione delle piante rientrava in quel gioco di disordine cronico.
Di tanto in tanto, Mario gettava occhiate fugaci su Carlos e il re del rock, incrociando spesso lo sguardo profondo di quest’ultimo.
Si sentiva perennemente scrutato, esaminato a fondo in ogni sua espressione e movimento. Ogni volta che guardava Mr. D. cadeva nei suoi occhi, che lo scavavano in profondità alla ricerca di un punto debole da colpire. Non capiva perché egli lo stesse fissando a quel modo e ciò gli creava un marcato imbarazzo.
“Che c’è amico di Carlos? Ti stai forse annoiando?” disse Mr. D. interrompendo un discorso di Carlos.
La domanda, pronunciata con tono ineluttabilmente infastidito, lo squarciò in due. Che motivo aveva per essere così in collera con lui? Anche Carlos rimase sorpreso e ci fu un minuto di gelo nel gruppo.
Lo sguardo di Mr. D. era pervaso dalla rabbia, al culmine di una tensione esplosiva. Sembrava che da un momento all’altro si sarebbe scagliato con violenza contro il suo ospite sconosciuto.
Quando la situazione sembrò essere irrimediabile, Mr. D. scoppiò nuovamente nella risata sconnessa di qualche minuto prima. Carlos e Mario si guardarono increduli per qualche secondo e scoppiarono anche loro a ridere.
Col passare dei minuti l’atmosfera divenne più rilassante.
Mario, dapprima escluso da qualsiasi discorso, partecipava ora attivamente alle discussioni che si avvicendavano nel frastuono incessante. Macchine lussuose, viaggi da sogno e gossip sfrenato si alternavano disordinatamente, dissolvendosi con la stessa velocità con cui venivano alla luce.
Mario si sorprendeva al solo sentir parlare di celebrità e loro vizi ed ascoltava avidamente ogni informazione, sconosciute ai più, in preda ad una morbosa curiosità, sentendosi altamente privilegiato nel venire a conoscenza di fatti che la gente comune non leggeva nemmeno nei più scandalistici dei rotocalchi.
Mr. D. si rese ben presto conto di essere una fonte inesauribile di interessantissime notizie per il suo nuovo pseudo-amico; lo vedeva pendere dalle sue labbra, avvicinarsi a lui ogni volta che la musica cercava di coprire le loro parole. La sua sete di notizie lo inebriava e lo portava, di tanto in tanto, ad enfatizzare i pettegolezzi meno interessanti e trasportandoli allo stesso livello di attenzione delle notizie più succulente.
Inconsapevolmente, Mario ricreava attorno a lui quell’alone mistico che caratterizzava ogni suo concerto; lo innalzava su un palco immaginario e puntava su di lui tutte le luci a disposizione, escludendo tutto ciò che lo circondava, rendendolo unico ed incontrastato protagonista.
Al contrario, Carlos cominciò via via ad estraniarsi. Partecipava con distacco alla discussione, intervenendo di tanto in tanto solo per giustificare la propria presenza. D’un tratto si sentì di ingombro e geloso dell’attenzione, fino a quel giorno rivolta a lui, che Mario riservava al suo nuovo celebre amico. Sentì così il bisogno di sparire tra la folla e si dileguò senza che i due se ne accorgessero minimamente.
Andarono avanti per quasi un’ora, Mario sempre più curioso, Mr. D. sempre più ubriaco. Le parole ormai veleggiavano nell’aria inconsistenti e prive di reale significato. Nomi celebri si alternavano freneticamente e si confondevano in discorsi senza capo ne coda.
Mr. D. cercava di mantenere una certa logica nei suoi discorsi ma i fumi dell’alcol lo facevano desistere immediatamente ogni volta che aggiungeva un nuovo personaggio alla sua storia infinita.
“E con questo ti ho detto tutto.”Disse Mr. D. stremato. “Io cambio aria.”
Salutò Mario con una pacca sulla spalla, accennò ad un mezzo abbraccio e sgusciò via.
Mario lo seguì con gli occhi, ancora estasiato dai suoi racconti mondani, combattuto nella voglia di seguire il suo viaggio traballante. Dopo pochi passi, però, Mr. D. tornò da lui.
“Ma vuoi startene lì impalato tutta la sera?” biascicò.
Si allontanò nuovamente e gli fece cenno di seguirlo.
Mario obbedì come un cagnolino ammaestrato e lo raggiunse in un attimo. I due camminarono a zig-zag per tutta la sala, abbracciati l’uno all’altro, fino ad uscirne passando per il grande arco. Mario si faceva guidare da lui con la curiosità di un bambino.
Raggiunsero l’atrio e si fermarono ai piedi della scala in legno.
Mr. D. la guardò con aria di sfida.
“La sintesi perfetta della vita: trovi sempre una scala ripida davanti a te proprio nel momento in cui non hai le forze per affrontarla.”
Scoppiò a ridere ancora una volta. “Che gran cazzata che ho detto!”
Salirono lentamente i gradini scricchiolanti ed entrarono in una stanza buia, dove una porta-finestra spalancata si affacciava sulla boscaglia di pini.
Mr. D. si divincolò dalla presa di Mario e sprofondò in una poltrona di pelle scura. Mario andò in cerca dell’interruttore della luce.
“Non cercare la luce, non c’è. Accendi quella.” Disse indicando una candela su di un tavolino in vetro.
Mario accese la candela e si sedette sulla poltrona accanto a lui. Le loro ombre si spalmarono sulla parete.
“Dimmi un po’…” disse Mr. D. “Ti piace la festa?”
“Sì, molto! È una delle migliori feste a cui abbia mai partecipato, anche se in verità non ne ho viste molte.”
“Fa schifo!”
“Non mi sembra. C’è tanta gente…”
“Tanta gente falsa!” lo interruppe. “Non crederai veramente che quelli siano tutti miei amici? La metà di loro non li conosco nemmeno.”
“E perché sono qui allora?”
“Perché nessuno che abbia un minimo di intelligenza si permette di mancare ad una festa di Mr. D.”
“Capisco.”
“Capisci? Sei anche tu una rockstar? Non puoi capire! Che vita di merda!” rispose infastidito.
“Beh, non esagerare. Non sai quanta gente scambierebbe la propria vita con la tua. Insomma, tu sei ricco, celebre e amato da tutti. Cosa si può pretendere di più?”
Mr. D. rise nuovamente ma questa lasciando trasparire enorme disagio.
“Amato? E da chi? L’unica persona che abbia mai detto di amarmi è sparita quando gli ho detto di andarmi a prendere da bere. Tu l’hai più rivisto?”
“Stai parlando di Tango?”
“Sì, Tango, il mio grande amore.”
“No, non l’o visto.” Rispose Mario imbarazzato.
“Eh sì caro amico, ecco un’altra delle tante stravaganze delle star: amo un uomo e sono amato da un uomo. Sei sorpreso?”
“Solo dal fatto che non mi sembrava che voi due… Insomma, non vi ho visti molto uniti, diciamo…”
Ad ogni parola che pronunciava Mario si sentiva sempre più imbarazzato. Non gli era mai capitato di colloquiare con un omosessuale e non sapeva cosa dire. Il fatto che egli fosse anche una celebrità non facilitava certo le cose.
“Forse perché ufficialmente non lo siamo.”
“In che senso?”
“Lui è sposato. Sua moglie è una delle tante sgualdrine al piano di sotto. Si sono sposati come copertura. Lui non se la sentiva di dichiarare al mondo la sua vera natura.”
“E’ triste questo.”
“Cosa? Che siamo gay?”
“No, assolutamente! È triste che lui si debba nascondere agli occhi di tutti.”
Mr. D. lo guardò con ammirazione. Un lieve sorriso affiorò sulle sue labbra. Allungò il braccio e gli posò la mano sulla gamba.
“Mi piace la tua semplicità. Sei ancora talmente puro da credere che dichiararsi al mondo sia un cosa così semplice, vedi nelle persone più infide un lato di umanità e apprezzi la ricchezza, la consideri un sogno. Anch’io ero come te, un tempo.”
“E cosa ti ha fatto cambiare?”
“Tutto questo.” Allargò le braccia al cielo, indicando la stanza. “D’altronde per diventare un Mr. D. bisogna vivere da Mr. D. e avere a che fare ogni giorno con persone che ti vedono come una montagna inesauribile di banconote di grosso taglio. È la dura legge dello show-business.”
La grande rockstar, fulcro dell’attenzione del mondo intero, era diventato un essere spoglio di ogni certezza, un bambino nudo ed indifeso in un campo di battaglia. L’ammirazione che Mario gli aveva donato fino a quel momento divenne pietà e la persona che prima possedeva tutto quello che desiderava, ora era un senza tetto sulla strada della vita.
Si rese conto della grande beffa dell’esistenza umana: quando si arriva a toccare il picco più alto della vita, comincia una discesa vertiginosa  ed inarrestabile verso il fondo. È come cadere dal tetto di un palazzo di cento piani.
“Posso farti una domanda?” chiese Mario.
Mr. D. annuì.
“Cosa vuol dire Mr. D. ?”
“Che vuoi che ne sappia io? Me l’hanno affibbiato i discografici. Non ho la minima idea del perché. Però, pensandoci bene, forse un significato ce l’ha…”
“Cioè?”
“Mr. Dipendenza. Dipendenza da tutto questo, dipendenza dal pubblico, dipendenza dalla mia rovina, eccetera eccetera. Ma basta parlare di me. Raccontami qualcosa della tua vita semplice. Ce l’hai la ragazza?”
“Purtroppo no. Anche se ne ho appena conosciuta una e… si mi piace molto.” Rispose imbarazzato.
“E gliel’hai già detto?”
“No, non ancora. Ci conosciamo da qualche giorno e mi sembra un po’ troppo presto.”
“Come vi siete conosciuti?”
“Beh, mi sono svegliato a casa sua.”
Mr. D. lo guardò sorpreso e nuovamente pieno di vita. Non si sarebbe mai aspettato di sentire da uno come Mario parole del genere. 
“Racconta, racconta!” disse con entusiasmo inaspettato.
“Una sera mi trovavo al locale di Carlos, il barista continuava a offrirmi da bere e ho preso una bella sbornia. L’ultima cosa che mi ricordo è uno schiaffo da parte di una ragazza al bagno delle donne e poi mi sono svegliato a casa di Marta.”
“Oltre il danno, la beffa. Così non ti ricordi nemmeno della notte di fuoco con lei?”
“No, non è successo niente tra di noi. Ero a casa sua perché mi aveva raccolto dal marciapiede davanti all’Atmosphere.”
“Ha avuto un bel coraggio a fare una cosa del genere!”
“E’ vero! Sai, da quel poco che la conosco, mi sembra una gran bella persona. È gentile, simpatica e, ovviamente, socievole. Vive sola in un appartamento che prima abitava con un’amica, poi questa se ne è andata e la lasciata lì a pagare l’affitto per intero. Insomma, una bella responsabilità per una ragazza giovane come lei.
Quello che mi piace di lei è l’entusiasmo che mette in ogni cosa che fa. Per esempio, mi ha svelato che il suo sogno sarebbe diventare una hostess e…”
Si accorse che Mr. D. non lo ascoltava più e si era addormentato nel mezzo del suo discorso. Era rannicchiato in posizione fetale, con la testa poggiata sul bracciolo della poltrona ed il braccio a penzoloni.
Si fermò qualche secondo ad osservarlo dormire; notò in lui un’espressione innocente che si liberava dalla sua immagine artefatta di grande divo. Nel sonno, tornò ad essere il bambino sognante che probabilmente era stato fino a qualche anno prima. Gli fece una gran tenerezza vederlo nell’unico suo momento di pace dell’intera giornata e si sentì, per un attimo, un ladro di innocenza.
Trovò una coperta di lana verde sul pavimento e lo coprì. Soffiò sulla candela e una sottile striscia di fumo bianco si arrampicò nell’aria.

In punta di piedi uscì dalla stanza e richiuse la porta dietro di sé. Dal piano inferiore arrivavano ancora la musica e gli schiamazzi degli invitati e capì finalmente quello che Mr. D. gli aveva svelato poco prima: le persone che credeva fossero amici erano solo comparse avide che ruotavano nel suo universo. A nessuno importava di lui, tutti si divertivano il più possibile, ignorando l’unica persona grazie alla quale stavano festeggiando, ignorando l’unica persona che non avrebbero dovuto ignorare.



tratto da Il Signor Nessuno (2004)

lunedì 20 maggio 2013






Ti stavo a guardare nel silenzio, 
il senso dello spazio ci divide già. 
Mi fermo qui, davanti a questo muro, 
ogni parola non ha più peso dell'aria che si confonde in noi 

Non respirare, questo momento non ha età 
e un vago senso di vuoto ci colora….

Ti prego lasciami solo…

Io, scatto senza volo.
Io, cuore senza amore. 
Io, re del mio silenzio. 

Tutto è lontano, la gioia e la malinconia 
e ogni pensiero non ha più peso dell'aria che si confonde in me.
Wuando tutto è qui, quando tutto è fermo 
non chiedo pietà, chiedo di lasciare che tutto passi perché non so più amare.…


Volo.
Cado.

mercoledì 8 maggio 2013

Estratto #3


La mia Voce”, ecco cos’era.
Divoravo le parole in preda ad una crisi mistica e credevo realmente che le avesse scritte per me. Ero convinto che l’aver ritrovato il quaderno in una sera così particolare, in un luogo talmente importante per me, non potesse essere altro che un segno.
Perché io e non altri? L’unica spiegazione plausibile era… il Destino.
Riposi il quaderno nel mio Cassetto delle cose segrete ma avrei dovuto fare la stessa cosa con i miei pensieri. Per tutta la notte, invece, non feci altro che rivolgerli a lei, alle carezze di sua madre e a Jessy.
Sarei andato avanti nel leggere fino ad incontrare nuovi fogli immacolati ma non volevo divorarla. Il rischio di perdermi anche solo una linea sottile della sua anima sarebbe stato altissimo e non me lo sarei perdonato!
Una vita alternativa… Sapevo a cosa si riferiva, l’avevo cercata anche io in passato, chiuso nella mia camera a consumare la tastiera del pc.
Non c’erano bottiglie vuote o piccoli rotoli di allucinazioni. C’era solo la mia mente che vagava in maniera del tutto naturale. Finché ogni cosa svanì e mi ritrovai a boccheggiare in questo oceano.
La differenza tra noi era solo nel fatto che non avevo nessuno da incolpare, ad eccezione di me stesso. Tutti i fallimenti che caratterizzavano la mia vita avevano un unico colpevole protagonista: IO.

Ore 9.05 del mattino: l’arrivo di un messaggio sul cellulare mi catapultò nel presente. Quando lo avevo acceso?
L’amabile società di telefonia mobile, nella quale avevo così ingenuamente riposto le mie speranze comunicative col mondo esterno – dovevo essere pazzo! – mi informava che il credito era inferiore ai tre euro.
Che notizia terribile! Come avrei potuto organizzare un mega-party nel mio mega-monolocale in quelle condizioni? Un’angoscia che mi consumò le viscere per sette secondi netti.
Mi resi conto, grazie ai brontolii del mio stomaco, che erano pressappoco dodici ore che non ingerivo niente di solido. Era giunto il momento di rituffarmi nella gloriosa vita da single.
Mi avvicinai al frigorifero, convinto che la cosa non mi avrebbe impegnato per più di una decina di minuti. Quel pensiero era incredibilmente lontano dalla realtà!
Ancora il maledetto deserto di ghiaccio ad annientare la mia autostima e, questa volta, nemmeno i due cassettoni delle sorprese potevano aiutarmi.
Tremai all’idea di dover… andare al supermercato!
La mia idiosincrasia per quel luogo era frutto di terribili ricordi infantili, nei quali mi vedevo trascinato da uno scaffale all’altro, spingendo un carrello sempre più colmo e pesante, dovendo compiere vere e proprie acrobazie per non mozzare centinaia di gambe appartenute ad altrettanti clienti che, con molta furbizia, avevano scelto proprio quel luogo e quell’ora per riempire le loro case di cianfrusaglie inutili.
Il tutto si concludeva con interminabili file alla cassa, dove mia madre amava soffermarsi a chiacchierare con le sue amiche di argomenti frivoli, dai quali non potevo mai sottrarmi dall’esserne l’oggetto.
Riflettei a fondo sulla situazione, cercando vie alternative allo strazio che mi stava aspettando ma, alla fine, dovetti desistere dall’idea che qualche giorno di dieta forzata non avrebbe potuto che farmi bene.
Mi infilai la giacca di velluto ed uscii di casa.
Un tiepido sole tentava di asciugare le strade, ancora bagnate dalle piogge della notte appena terminata.
Quanti passi compirà un uomo nell’arco della sua giornata? E nella sua vita? Sono cose che mi hanno sempre incuriosito e per le quali, molto probabilmente, non avrò mai risposta. Sarebbe come pretendere di sapere quante stelle ci sono nel cielo. Nessuno si metterà mai a contarle…
Le porte automatiche del supermercato non si aprirono immediatamente al mio arrivo; sembrarono diffidenti nei miei confronti.
Una volta dentro fui inondato dalla luce fredda dei neon e dalla musica gracchiante in filodiffusione.
A quell’ora del mattino, solo le imperterrite vecchiette del quartiere popolavano gli scomparti e le celle frigorifere tutt’intorno a me.
Mi sono sempre chiesto perché ci sono persone che vengono al supermercato ogni dannatissimo giorno e comprano le stesse dannatissime cose in quantità industriale. Dove cavolo le mettono?
Forse fingono di comprare tutta quella roba. In realtà si presentano alla cassa con qualche fetta di prosciutto ed un rotolo di carta igienica ed il loro intento - o, sarebbe meglio dire: “il loro assoluto bisogno” -  è svagarsi per qualche mezz’ora giocando alle formiche accumulatrici.
Cominciai a passeggiare tra gli scaffali senza avere la minima idea di cosa comprare: non ho mai amato le liste della spesa!
La mia attenzione fu attirata da un TrePerDue su bustine di risotto ai funghi pre-confezionato. Di certo uno chef parigino sarebbe inorridito all’idea ma, mentalmente, non potevo permettermi altro: l’arte del cucinare non era mai stata mia.
“Moglie in vacanza?”, intervenne una vecchietta, vestita a lutto da chissà quanti decenni.
“Prego?”
Indicò le tre buste nelle mie mani con un sorriso che lasciava trasparire un’odiosa pietà nei miei confronti.
“Ah sì, questi… Beh, non ho molto tempo per cucinare.”
“E dove è andata?”.
Il suo sguardo passò dall’essere impietosito all’essere incuriosito.
“Chi?”
“Sua moglie.”
“Non sono sposato.”
“Come? Un bel giovanotto come lei non è sposato?”
“Lo ero ma ci siamo separati.”
 “Oh, come mi dispiace!”
L’idea sembrava realmente affliggerla.
“Quando ero giovane io, e si parla di molti anni fa, ci si sposava presto e non ci si lasciava più. Al giorno d’oggi, invece, fanno tutti le cose senza pensare e prendono tutto alla leggera… Ai miei tempi non ci si separava mica, sa?”
“Signora mia, ai suoi tempi non esisteva nemmeno la possibilità di farlo.”
“Io non l’avrei fatto comunque!”, rispose un po’ seccata. “El me’ marì…”, disse segnandosi “…l’era inscì brav! Lavorava tutto il santo giorno e quando veniva a casa mi portava sempre a ballare. Lei sa ballare?”
“Direi di no…”
“Neanche un ballettino?”
“No, mi creda!” 
“Che peccato! Una volta le ragazze le si conquistava ballando, mica come fate adesso…”
“E come facciamo adesso?”
Ero davvero curioso di sapere come le vecchie generazioni ci vedessero.
“Mah… con quel Internèt…Che, tra l’altro, non ho ancora capito bene cos’è.”
In fondo la signora era piuttosto dolce.
“Devo cominciare a fare un po’ di volontariato nelle case di riposo.”, pensai.
“Ma lei è il figlio della Luisa?”, chiese saltando di palo in frasca.
“No, signora. Mia madre si chiama Amanda.”
“Ah, non è il figlio della Luisa… Mi sembrava di conoscerla…”
Se ne andò senza aggiungere altro, spingendo il suo carrello mezzo vuoto, per poi scomparire girando l’angolo della corsia.
Sorrisi guardandola dileguarsi tra farina ed olio d’oliva.
Dopo una ventina di minuti ed un paio di chilometri percorsi avanti e indietro tra il reparto salumeria e i banchi-frigo dei latticini, il mio carrello fu inaspettatamente pieno.
Alle casse, fortunatamente, la fila non era molto lunga.
Tuttavia, un uomo di mezza età, dall’aspetto decisamente notarile, aveva deciso che avrei dovuto passare l’intera mattinata a sentirlo discorrere sul rapporto qualità-prezzo di una nuova marca di detersivo per pavimenti, a suo dire esageratamente costoso in proporzione alla misera quantità contenuta nel flacone.
Avrei voluto regalargli una di quelle cassette di legno, solitamente utilizzate per contenere la frutta nei mercatini settimanali, che sarebbe diventata il suo pulpito da predicatore.
La cassiera tentava di ribattere garbatamente alle sue considerazioni di consumatore defraudato ma si capiva lontano un miglio - e come darle torto - che della questione non le importava un fico secco.
Me ne stavo lì, spalmato sulle mie costolette di maiale ad assorbire tutta la noia e il malumore che volteggiavano nell’aria, quando sentii una voce pronunciare il mio nome, perforandomi come una coltellata all’addome.
Mi voltai lentamente, nella speranza di aver avuto solo un'allucinazione uditiva ma, quando la voce assunse forme umane, un brivido percorse la mia spina dorsale, dall’alto in basso.
“Sei proprio tu?”
Ero proprio io e lei era proprio la donna che mi aveva privato di anni di sonno beato: Marisa, la mia ex-moglie.
“Ciao Marisa.”
Non sapevo se fosse più conveniente nascondere l’imbarazzo o il disprezzo che quell’incontro mi provocava, così decisi di manifestare entrambi.
“E’ passata una vita dall’ultima volta che ci siamo visti!”, disse sorridente.
“Dici? A me sembra sia volato, il tempo.”
Non era vero, furono i tre anni più lunghi della mia vita, anche se non a causa della sua mancanza.
“Allora, come te la passi?”
“Beh, direi piuttosto bene!”
Anche questo non era vero ma non volevo darle la soddisfazione di vedermi come un uomo allo sbando.
“Bene, sono contenta!”
Ci furono interminabili secondi di silenzio tra noi, durante i quali progettai svariati modi carini per andarmene e lasciarla al predicatore del consumismo.
“E, dimmi, stai con qualcuno ora?”, chiese più per spezzare l’imbarazzo che per un reale interesse per la mia vita sentimentale.
“Sono appena uscito da una storia. Niente di importante, solo una semplice avventura.”
Non mi ricordavo capace di inventare tante balle e così ben congeniate.
“Mi spiace!”
“No, non ti preoccupare. Mi ero stancato e ho deciso di troncare. E tu? Stai con qualcuno?”
“No, direi di no…Siamo ancora due single incalliti, dunque?!”, disse sottolineando le sue parole con la classica risata stupida di una ragazzina imbarazzata.
“Così sembra… Come mai da queste parti? Pensavo abitassi ancora a…”
“In verità passavo di qui per caso e mi sono ricordata di non aver nulla da preparare per cena.”
“E te ne ricordi alle nove del mattino?”, pensai. La cosa puzzava alquanto.
Il notaio-predicatore alzò improvvisamente il tono della voce ed attirò la nostra attenzione.
“Ma non ha nient’altro da fare quello?”, disse Marisa.
“Avrà voglia di parlare con qualcuno.”
“Ok, ma non possiamo passare tutta la mattina bloccati qui!”
“Hai qualche appuntamento?”
“No, ma non mi va lo stesso di starmene qui ad ascoltarlo.”
Nel frattempo, una caritatevole dipendente del supermercato aprì una nuova cassa e i tre quarti della gente incolonnata nella nostra fila si trasferì da lei.
“Mi sposto anche io.”, disse Marisa, probabilmente con la speranza che la seguissi.
“Io resto qui a sentire come finisce la predica.”, risposi ironicamente.
Marisa sorrise ma sembrava che per qualche ragione non volesse muovere il primo passo verso la fila più veloce.
“Senti, so che probabilmente non è una buona idea ma…”
“Ma?”
“Perché stasera non vieni a cena da me?”, chiese visibilmente imbarazzata.
“Hai ragione: non è una buona idea!”
“Dai Primo, non stare così sulla difensiva. È solo per ricordare i bei vecchi tempi.”
“L’unico aggettivo che non posso certamente associare ai vecchi tempi è bello!”
“Lo sai che non è così. Siamo stati bene prima di…”, si interruppe.  
Pensò di essersi fermata in tempo dal ricordarmi la causa della nostra separazione ma non sapeva che, dal primo istante in cui l’avevo rivista, il suo simpatico aneddoto extraconiugale era l’unico pensiero che avevo in testa.
Tuttavia, dovetti riconoscere che, in fondo, quello fu l’unico momento veramente tragico e deprimente del nostro matrimonio. Tutto il resto, come ho già raccontato, era un quieto vivere.
“Ti prego!”, insistette sfoggiando il suo proverbiale sguardo da cerbiatta ferita.
Finsi di riflettere per qualche secondo ma ero conscio di aver già deciso nel momento stesso in cui me lo aveva chiesto. Alla fine accettai.
“Allora ci vediamo stasera alle otto!”, disse entusiasta. “Tanto dove abito lo sai, no?”
Se ne andò con un sorriso raggiante e la sua indimenticabile andatura da infermiera stanca.

“Che cosa hai fatto? Hai accettato di andare a cena con la tua ex-moglie? L’hai fatto davvero? Che stupido che sei!
Come pensi che andrà la serata, eh? Comincerete a ricordare i vecchi tempi, fino a farvi coinvolgere negli aneddoti più divertenti; berrete qualche bicchiere in più e BOOM, finirete a letto insieme in men che non si dica!
E poi? Ti fermerai a dormire da lei per la notte, forse per due o addirittura per tre, fino a quando non lascerai lì il tuo spazzolino da denti e ricomincerà tutta la solfa! E’ questo che vuoi, Primo? Vuoi rovinarti la vita un’altra volta?”.

Come al solito il mio buonsenso si era fatto vivo quando ormai tutto era compiuto e non servì ad altro che aumentare i miei sensi di colpa.
Ma c’era qualcosa, dentro di me, che combatteva e si dimenava per uscire allo scoperto. Quella stupida sensazione si chiamava “Speranza”, speranza di trovarla cambiata, più interessante, più attraente di come la ricordavo.
D’altronde, tutti cambiamo. Certo, alcuni lo fanno in peggio ma pur sempre di cambiamento si tratta.
E poi chi mi dice che non si sia resa conto fino in fondo di quello che mi ha fatto e non si sia flagellata per tutto questo tempo, promettendosi che, se mai avesse avuto la possibilità di incontrarmi nuovamente, avrebbe fatto di tutto per rendermi felice?
Volli darle una possibilità di aggiustare parzialmente le cose. Non c’era niente che avrebbe potuto fare o dire per farmi dimenticare quello che era successo ma, per Dio!, tutti possiamo commettere degli errori e tutti dobbiamo avere la possibilità di porvi rimedio.
Oltretutto, non avevo nient’altro da fare quella sera.

Alle otto e dieci minuti suonai il campanello di casa sua, con una bottiglia di vino bianco a buon mercato nella mano destra ed un vassoio di pasticcini nella sinistra.
Vidi che aveva ancora mantenuto la targhetta col mio cognome sulla porta d’ingresso e questo fu un segno inequivocabile delle sue intenzioni mai sopite.
Venne ad aprirmi immediatamente, come se mi aspettasse da ore con l’occhio incollato allo spioncino.
Era incredibilmente elegante e tirata a lucido come non l’avevo mai vista.
I capelli, portati sempre sciolti, ora erano raccolti in una deliziosa cascata di riccioli biondi. Il trucco era leggero ma ben curato ed un paio di orecchini luccicanti rendevano il suo viso assai fresco e giovanile.
E quel vestito… Una leggera camicetta bianca in trasparenza, abbinata ad una lunga gonna nera con spacco laterale, lasciavano intravedere forme certamente segnate dal tempo ma ancora piuttosto attraenti.
“Perché non ti sei mai vestita così quando stavamo insieme?”, pensai.
Mi fece accomodare in salotto e, non so per quale istinto masochista, mi sedetti nello stesso punto dal quale avevo posto fine alla nostra storia.
“Sono contenta che sei venuto! Avevo paura che, nonostante avessi accettato l’invito, avresti cambiato idea all’ultimo minuto.”, disse.
“Perché avrei dovuto farlo?”
“Già, tu non cambi mai idea…”
Era questa la prima frecciatina della serata?
Stappai la bottiglia che avevo portato e brindammo al nostro incontro.
La tensione nell’aria si tagliava a fette; mi sarei preoccupato se non fosse stato così.
Inizialmente i nostri discorsi verterono su argomentazioni futili, frasi di convenienza e finti interessamenti sulle nostre esperienze lavorative degli ultimi anni.
Con particolare disinteresse, venni a sapere che aveva abbandonato il lavoro che faceva quando eravamo sposati ed era stata assunta come parrucchiera in un piccolo negozio in città. Era piuttosto contenta della sua nuova occupazione anche se, per raggiungere il negozio, doveva sorbirsi ogni giorno quasi un’ora e mezza di autobus e metropolitana.
Si rammaricò per il mio recente licenziamento e si propose come valido aiuto per la ricerca di un nuovo lavoro.
La cosa non mi interessò particolarmente; non tanto per la sua offerta ma per il fatto che per qualche tempo desideravo staccare un po’ la spina dalla vita e riordinare le mie idee. Quello che avevo guadagnato in passato mi avrebbe permesso di farlo e, così, mi ero concesso il classico anno sabbatico.
Più passavano i minuti e meno mi sorprendeva; mi resi ben presto conto che, in fondo, non era cambiata per nulla. Il suo carattere era sempre dominato da quell’indole prevaricatrice, che un tempo mi avrebbe fatto comodo ma che ora provocava in me solo disgusto.
I suoi malesseri, come le sue gioie, erano veramente avvilenti, incentrate su una stupida smania di votare la sua vita al materialismo più volgare.
Il suo unico scopo era rimasto quello di sempre: mandare avanti la casa e risparmiare quanto più possibile, in modo da poter affrontare una vecchiaia serena. Quello che ignorava, però, era che fosse già irrimediabilmente vecchia, non nell’età o nel fisico ma nei pensieri.
La cena si dimostrò un colossale fallimento sotto ogni aspetto: dalla cucina scadente ai discorsi inutili, dall’avvilente atmosfera di famiglia ritrovata che si era creata all’insopportabile musica in sottofondo, che Marisa aveva erroneamente eletto a collante della nostra ri-unione.
Il mio vinaccio era l’unico motivo valido per rimanere in quella casa.
Non ci volle molto a far entrare Shara nei miei pensieri.
Per tutto il resto della serata mi sentii come attratto irresistibilmente dal suo ricordo, come se fossimo legati da un filo invisibile che si ritraeva e mi trascinava con forza verso di lei.
Mi chiesi più volte dove fosse e cosa stesse facendo.
La immaginai distesa sul suo letto ad osservare il soffitto, sorseggiando un bicchiere di buon vino rosso, mentre una musica leggera accompagnava i suoi incubi e la trainava verso un sonno che non sarebbe mai stato ristoratore.
Avrei voluto raggiungerla ed abbracciarla, accarezzarle i capelli e condividere la sua agonia, cantarle dolci melodie d’infanzia e restare ad ammirarla nel dormiveglia.
Per qualche strana ragione l’associavo continuamente alla mia Voce, la Voce del quaderno. Le due personalità, per quanto poco conoscessi di entrambe, combaciavano perfettamente nei miei sogni.
Le parole appartenevano a quel corpo angelico, il quaderno era la Voce della Dea.
“Voce della Dea”. Decisi che questo sarebbe diventato il nome del quaderno.
Marisa sembrava non accorgersi dei miei viaggi mentali e continuava imperterrita nello sproloquio in cui si era addentrata senza pudore. Le sue parole non avevano più importanza della musica che fuoriusciva dall’impianto stereo.
Di tanto in tanto mi riportava bruscamente alla realtà con domande idiote, alle quali rispondevo telegraficamente. Come poteva essere così stupida da non accorgersi della mia profonda noia?
Dopo un’ora abbondante di rigurgiti dell’anima, decisi che era giunto il momento di togliere il disturbo.
Non fece nulla per nascondere il suo dispiacere; d’altronde la mezza bottiglia di vino che si era scolata non gliel’avrebbe mai permesso.
Una volta raggiunta la porta d’ingresso, si lanciò in un ultimo disperato assalto e mi abbracciò, con tale forza ed intensità emotiva che mi spaventarono.
“Mi spiace per quello che è successo!”, disse alla soglia di un pianto fragoroso.
“Se c’è anche solo un modo per tornare indietro, ti prego, dimmelo e lo farò…”
“Ok, Primo. Questo è il momento giusto per dimostrare al mondo, ma soprattutto a te stesso, che non sei un mostro senza cuore. Questa donna sta realmente soffrendo e, per quanto poco possa interessarti, ha il diritto di ritrovare un attimo di pace. Quindi, caro mio, datti da fare e pensa a una parola consolatoria che la possa rendere felice.”
Maledetta coscienza!
“Vedi, Marisa, ormai il passato non si può più cancellare. Ok, hai fatto un errore e, in un certo qual modo, sono anche disposto a perdonarti. Ma, credimi, se il tuo desiderio è di ricostruire qualcosa tra noi, ti prego, fermati! È passato troppo tempo per pensare che le cose possano tornare come prima.
Siamo cambiati entrambi, non è vero? Ce ne siamo accorti proprio stasera. E cambiando abbiamo preso due strade molto, troppo diverse.”
“Ma io non posso…”
“Si che puoi!”, la interruppi.
“Anzi, devi! Sei una donna ancora giovane e piuttosto attraente. Devi pensare a rifarti una vita senza di me. E poi, vorresti davvero tornare con un tipo come me?
Guardami: ho quasi trent’anni, sono disoccupato e senza troppe aspettative nel futuro. Tu sei una donna dinamica, che sa quel che vuole. Io ti sarei solo d’intralcio.”
Stava per rispondere qualcosa ma, probabilmente, il mio sermone le aveva aperto gli occhi e mostrato quello che prima si sforzava di ignorare.
Ero riuscito con discreto successo a sbatterle davanti agli occhi la mia immagine di fallito. Chi meglio di me poteva sapere quanto non avesse mai potuto sopportare i falliti?
“Forse hai ragione…”, singhiozzò, mentre un lieve sorriso affiorò sul suo volto.
“Forse siamo realmente troppo diversi. Però nessuno ci impedisce di diventare buoni amici. Cosa ne pensi?”
Mi vennero i brividi.
“Potremmo vederci qualche sera alla settimana, magari andando a farci una birra.”, aggiunse.
 “Ci racconteremo i nostri dubbi e le nostre paure e collaboreremo reciprocamente nel risolvere i nostri problemi. Non è un’idea stupenda? È deciso: continueremo a vederci!”
Lo stava facendo nuovamente! Stava tentando di programmare la mia vita e, questa volta, voleva imprigionarmi tra mura di cemento armato.
“Allora, ti va di vederci Venerdì sera?”, chiese con un sorriso smagliante.
Cominciai a sudare; il cervello era ormai in panne e le mie mani presero a tremare vigorosamente. Dovevo trovare alla svelta una scusa per rifiutare il suo invito, dovevo scappare da li!
“Primo? Venerdì sera… ti va di vederci?”, insistette.
“NO!” urlai.
Mi divincolai dalla sua morsa e le chiusi letteralmente la porta in faccia.
Scesi le scale il più velocemente possibile, tanto che rischiai più volte di ruzzolare fino al piano terra.
Quando fui in strada, riuscii a prendere il primo autobus al volo, senza nemmeno sapere dove portasse. L’unico obiettivo della mia vita, in quel momento, era di allontanarmi il più possibile da quell’appartamento.
Una volta seduto, tremante dalla fatica e visibilmente sudato, ripensai a tutta la scena: la immaginai contorcersi sul pavimento per il terribile colpo subito in volto e piangere disperata per le ferite che avevo aperto nella sua anima.
Quella porta simboleggiava lo schiaffo che non ero mai stato in grado di darle.
Cominciai a ridere, a ridere di gusto.
I pochi viaggiatori presenti mi guardarono come si guarda un pazzo. Per loro non ero altro che uno dei tanti malati mentali che popolano la città al calar del sole.
Quello che non potevano minimamente sospettare era che, invece, io mi sentivo la persona più sana della Terra.



tratto da Micromillesimi (2008)